TOWER
“La memoria di una metropoli per non dimenticare”
“Tower” è una città verticale, una torre di babele, una metropoli che sale al cielo.
E’ un accumulo ordinato e sterminato di edifici, contenitori anonimi dove nel brulicare del presente, rivolto solo al futuro, confina all’oblio esperienze e vissuto di un uomo che ha perso la memoria e con essa i suoi ritmi vitali. Ma le sofferenze ed i sacrifici, ferite di guerre vissute, non possono essere dimenticati perché presto altrimenti rivissuti in una catena senza fine.
Vivere esuli dal ricordo consapevole del sacrificio altrui che ci ha permesso questa vita è solo un sopravvivere, un andare senza meta.
“Tower” diventa la verticalizzazione di "Metropolis" l’espansione di menti dove la memoria artificiale diventa monito a guardare indietro per poter andare avanti rimettendo l'uomo al centro della vita.
“Tower” è un totem realizzato mediante assemblaggio di 68 elementi, hard disk usati, ricavati da computer dismessi e saldamente fissati ad una struttura in acciaio inox alta 250 cm. Si genera così una città verticale infinita ed allo stesso tempo indefinita. Acciaio e vernice bianca fanno calare il silenzio sul brulicare umano e nel silenzio i ricordi riaffiorano, la mente si libera e può guardare indietro per poi andare avanti. “Tower” è realizzata in parte con materiali di riciclo perché “… tutto può avere un’altra possibilità ...” e perché “ ... in questa macchina che tutto macina e poi divora qualche cosa si salva e poi … vive ancora ...”.
“Tower” è anche un omaggio al regista austriaco Fritz Lang che con "Metropolis" nel 1927 aveva aperto una finestra sul nostro futuro.
Cities (mostra "Cities" 2014)
"Mediatore tra il cervello e le mani dev’essere il cuore” – aforisma del film di Fritz Lang “Metropolis”
di Diletta Biondani
Critico d’arte, curatore, direttore artistico di SPAZIOTINDACI – Padova
“Cities”, il titolo dell’esposizione di Stefano Boato allo SPAZIOTINDACI, si riferisce al contempo ad una particolare serie di opere dell’artista dedicate alle città e più genericamente alla riflessione sullo spazio e sulla comunicazione che caratterizza l’intera ricerca dell’autore.
Le opere di questo ciclo appartengono ad una più ampia sezione di lavori, definita “Combine” in stretta analogia con gli assemblaggi di Rauschenberg, nella quale l’artista usa materiali di scarto, che ha pazientemente catalogato e recuperato , come pretesti per creare opere d’arte. Ciò che muove l’intento dell’artista è innescare una riflessione sulla forma più che sul contenuto.
Le cose che Boato inserisce nelle sue opere sono conservate e non trovate, il gesto creativo parte dalla tela ma va oltre, include oggetti che egli ha scelto di custodire e rinnovare attraverso l’arte, muovendosi nello spazio e nel tempo. La tela diventa come un campo magnetico che attrae oltre al colore anche ciò che l’artista decide di trattenere e “salvare” dalla precarietà e dalla fugacità di questo mondo.
Oggetti e colori sono adoperati per la loro valenza estetica, rappresentano per Boato dei veri e propri strumenti espressivi, sono come lettere dell’alfabeto che solo combinati tra loro in infiniti modi producono infiniti messaggi.
Il collante che unisce oggetti, tela e immagini è dato da linee sottili tracciate adoperando smalti al nitro che non permettono ripensamenti in quanto asciugano molto velocemente. L’urgenza creativa spinge l’artista ad agire e deve essere dispiegata prima che la ragione prenda il sopravvento.
Boato usa le linee come una sorta di texture che tutto ricopre preserva e protegge. Ogni serie, dai collages che utilizzano pezzi di manifesti strappati dai muri delle città, ai lavori astratti come “sipari” o “reticoli” (dove le linee fungono da separazione rispetto al fondo del quadro) viene emblematicamente marchiata e contaminata. Nel caso dei combine le linee rendono omogeneo l’assemblaggio e lo preservano nella sua unità, servono a mettere ordine nell’universo, a dare forma concreta alle emozioni che sono fissate indelebilmente in un istante attraverso gli smalti al nitro.
Per l’artista frapporre le texture tra gli oggetti o le immagini e lo spettatore rappresenta un modo per trasmettere anche l’idea di tempo e durata. L’opera viene come “allontanata” dal pubblico attraverso il filtro delle linee per essere guardata, osservata nel tempo, analizzata e archiviata come il pensiero dell’artista che l’ha concepita.
L’arte di Boato cerca la sintesi dell’espressione dell’essere, la ragione ha una funzione subordinata rispetto all’inconscio nella creazione delle forme, ma è ciò che ne rende possibile l’interpretazione.
In particolare per la serie “Cities” l’artista si avvale di componenti elettrici, schede madri, circuiti e ventole di vecchi computer dismessi per creare degli evocativi assemblaggi che ricordano le moderne città dalla multiforme architettura fatta di case, palazzi, capannoni, grattacieli. Gli assemblaggi vengono montati su pannelli di legno e ricoperti con smalti al nitro monocolore vaporizzati con l’aerografo per rendere la superficie la più omogenea possibile. L’effetto finale è lucido, il piano è riflettente, in questo caso sono le luci e le ombre a creare quella sorta di texture in cui ciò che conta non sono i particolari ma è l’insieme, il tutto.
Le città di Boato sono fatalmente vuote, ciò che è sotteso è la totale assenza dell’uomo, da una parte come monito per il futuro, come in “La città ideale”, ad adottare comportamenti e stili di vita più compatibili con la salute del pianeta e al contempo come specchio della superficialità e la vacuità dei rapporti umani all’interno della società. È così che l’artista affronta la contraddizione della sua esistenza in una società che conosce solo il presente, che non ha pietà per ciò che non serve più, che è passato e per cui l’arte non può avere più nessun significato.
Boato può manipolare il passato utilizzandone i “rifiuti”(oggetti) e salvandoli salva se stesso. Egli usa, anzi ri-usa la tecnologia come strumento per farsi comprendere dagli altri, per parlare un linguaggio universalmente noto, attraverso le sue opere costruisce un ponte tra la realtà e il suo sentire, tra l’arte e la vita e rende tangibile ciò che per sua natura non lo è, diventando letteralmente “mediatore tra cervello e le mani”, come recita l’aforisma dell’opera cinematografica visionaria e profetica di Fritz Lang che tanto ha ispirato e influenzato il suo lavoro.
Prefazione (mostra "Cities" 2014)
“Quando non ho più blu, metto del rosso” - Pablo Picasso
di Carlotta Vazzoler
Direttore artistico e responsabile di M&ID - Venezia
Ho sempre pensato a Stefano Boato come ad un artista che recupera all’arte e quindi al mondo e alla storia fasce di esistenza consegnate all’oblio.
Sin dall’inizio della sua attività artistica Boato si arrischia al recupero del dimenticato e del rimosso, fino a che la sostanza ignorata, abolita e messa da parte, torna nella sua opera ogni volta ad affiorare sotto nuove forme.
Le “Città” dell’artista si fondano sulla tangibilità della materia oltre che sul colore che si aggiunge alla trasfigurazione dei materiali adottando la verticalità e l’orizzontalità dello spazio. I molteplici elementi raccolti, separati, ammucchiati e collocati in nuovo spazio si fondono con la politezza monocromatica del colore. La concentrazione del materiale lavora sulla capacità insita dello stesso di trattenere la luce, il colore invece diventa sorgente luminosa che espande la trasparenza delle singole forme.
Gli uomini costruiscono una geografia a immagine degli astri e dei cieli. Seguono così le forme accidentate delle montagne e dei fiumi, delle pianure e delle valli e le loro città assomigliano alle nubi che le sovrastano. Costruiscono case, palazzi e templi, tracciano strade che s’incontrano o s’intersecano, viali, boulevard e parchi. Altrettanti modi di agganciare il loro insediamento alla superficie del mondo. Nonostante sappiano con precisione che la pianta complessiva delle città è determinata da una disposizione naturale, gli uomini immaginano volentieri che tale ordinamento abbia preso le mosse da loro per contenere ricordi e morti, timori e speranze, amori. Le sue accumulazioni assomigliano ad un esercito in marcia, ad una brulicante fiumana: la città diventa materia vivente che cresce e si moltiplica secondo leggi proprie. Che queste costruzioni siano fatte per durare? O basta lo straripamento di un fiume, un terremoto, il mugghiare di una tempesta, l’eruzione di un vulcano perché in un attimo gli irrisori mucchi di pietre posate le une sulle altre, accumulati da secoli, siano spazzati via come fuscelli?
Le “Città” si trovano in uno stato di sospensione statica, di immobilità quasi primordiale, ma se ci spostiamo per osservarle ci sembrano in movimento, subiscono un cambiamento costante, una ridefinizione costante. Ci prende il desiderio di toccarle, queste città immobili, per dare vita ad un gioco tattile a cui l’artista sembra invitarci.
La sua ricerca si svolge all’origine stessa della pittura. Il suo segno è limpidamente pittorico: respinge ogni ripensamento, ogni ritocco, e ha quindi la purezza delle origini. E’ un segno che manifesta la più intensa vitalità; il colore diventa luce solare che non imita la natura, ma crea altra natura; è una pittura quella di Boato che pur restando visiva, fa intuire un oltre, di là dal visibile: è il senso di mistero che dà a questa pittura tanto luminosa un fascino segreto. Egli risolve la ricerca del continuo con un particolare valore di segno-colore: crea un fitto reticolato di linee, che incrociandosi e sovrapponendosi fanno vibrare il colore in trame sottili. La superficie sembra allargarsi al di là dei margini provvisori, con un effetto di totalità oltre il tempo.
Nelle recenti opere la pittura dell’artista si distende in due dimensioni con una finezza che dà effetti di lievità quasi allucinata, per la tensione interiore mai resa evidente. Boato moltiplica il segno pittorico sulla grande tela. E questo bisogno di grandi spazi si concretizza nella superficie: che è costruita internamente, senza schemi, in un divenire esistenziale come canto alla vita.
“Una mostra – disse Achille Bonito Oliva ad una Biennale d’Arte a Venezia – è sempre la messa in scena di una soglia e di una interferenza”.
La soglia si riferisce all’opera come oggetto visibile e confinato nella doppia cornice dello spazio e del proprio perimetro.
L’interferenza riguarda il rapporto tra le varie opere presentate che si relazionano tra loro attraverso la dialettica delle varie immagini, superando anche l’intervallo che corre tra l’una e l’altra.
L’esposizione che viene presentata allo Spazio Tindaci di Padova vuole percorrere la ricerca pittorica dell’artista dagli anni novanta fino ad oggi. In un continuo dialogo tra loro, le opere sviluppano un intreccio che riguarda la possibilità di fondare un’immagine sul doppio versante del figurativo e dell’astratto, in cui il primo termine designa la condensazione del flusso e il secondo la perdita del centro. La stratificazione verticale gioca tra forme e segni dove la colatura di colore sembra non avere fine, quasi l’artista voglia adottare un procedimento culturale inteso a produrre da una parte il controllo della struttura formale dell’opera e dall’altra il piacere creativo che accompagna la sua mano. Perché la pittura, in Boato, non sbocca soltanto dalle pulsioni della mano, ma è frutto di un sistema globale dell’atto che non trascura la decisione mentale nell’impostazione dell’opera e stratificazione dopo stratificazione, colore in aggiunta a colore, oggetto dopo oggetto, sembra l’artista voglia internare la luce per tenerla per sempre con sé.
AVVERTENZA (mostra "Cities" Padova 2014)
“Attenti a quello che leggete, il messaggio è subliminale, può emozionarvi e forse anche, farvi soffrire”
di Giovanni De Dominici
Architetto e personal-skipper - Venezia
Prima di tutto il niente …… Poi, fili sottili …… ordito impercettibile che unisce l’insieme in un caleidoscopio di trame colorate.
Tessuto che lega
e che sovrasta gli spazi e che poi si adagia su tutto e su tutti.
Ed ancora rete di scintillanti neuroni che schizzano veloci sopra ai territori della memoria……;
Rette,Tracce, Rotte…...,
impalpabili e pur così riconoscibili, perché leggibili all’esterno, nell’opera, rispecchiando quanto da sempre è così profondamente inciso dentro
all’essenza stessa del sentire quotidiano.
Rotte, Rette, Tracce……
specchio del nostro desiderio di comprendere e conglobare, di unificare in un coerente linguaggio,
le infinite tendenze e i luoghi..…., superando dubbi...… e incertezze…… con gesti sicuri convinti e sinceri……;
Fili d’acciaio e di carbonio che innervano le vele dei nostri pensieri e dei nostri desideri, per navigazioni verso orizzonti lontani…… forse anche……
non più umani……
mentre si staccano dal concreto ed assurgono ad una più profonda spirituale certezza;
E poi………
Macchie, Chiazze, Sprazzi…… di luce solare che illuminano gli echi delle trascorse giornate di cui si ha memoria;
Attraverso saggi filtri trapassa la luce…..., qui più tenue, li più intensa e calda, ora ondeggiante in un mare di azzurro,
poi fremente in tempestoso rosso,
giallo sornione gioioso e ammiccante e ancora verde discreto e prudente,
i ritmi incalzano su frequenze inattese e dalle ombre emergono fantasmi ormai puri, con sguardi e movenze ogni volta più veri;
Ora la danza si svolge e si scioglie su superfici lisciate e splendenti, rimbalzando, inattesa, di volume in volume, fino a perdersi negli echi melodici del tempo……
Che ne è stato di quelle città ora vuote?
Una coltre spessa le ricopre.
I segni della potenza sono lì evidenti e muti, ricordandoci ancora un remoto passato di energia e di dorata ebrezza…… tra le elementari informazioni che guizzavano allora alla velocità della luce.
Ma dentro a quelle perdute metropoli, nel perduto e sconosciuto profondo, ciò che oggi appare cristallizzato da una lucente ed uniforme tinta,
ancora si muove……….
in un flusso sommesso che inspiegabile condensata energia fa fluire lungo sconosciute vie.
È un cuore che pulsa e continua a pulsare………… anche dopo la vita….. ben oltre la morte….
Traduzioni (mostra "Cities" 2014)
“Una lettura semiotica dell'opera di Stefano Boato”
di Giancarlo Labate
Psicologo e psicoterapeuta - Cagliari
Stefano cerca di svelarsi anche se non ci riesce pienamente.
C’è un conflitto tra due modi di vedere il mondo:
da una parte il mondo finito, delle cose, limitato e concreto, dall’altro la ricerca di combattere questa finitezza.
La lotta non è agevole, gli strumenti sono quelli a lui più consoni e cioè l’uso del velo più o meno marcato.
Il velo non ha confini, non ha limiti e non è concreto; il velo è astratto anche se viene costruito in maniera fissa e precisa.
Non ci sono confini nei quadri come a significare la perdita di una cornice di riferimento, la ricerca di altre cornici, distanti che non si vedono.
In alcuni momenti si svela con l’utilizzo di colori tenui e di forme finite anche se vissute in maniera critica e drammatica.
Il mondo così com’è non gli piace, lo aggredisce anche se lo fa utilizzando le regole del mondo che conosce.
L’unico modo per uscire dalle regole è quello di usare i colori in maniera forte, aggressiva quasi a significare quanto sia difficile uscire dal senso comune senza rientrare nel senso comune.
Quella di Stefano è una critica alle ovvietà, alla linearità, alla nitidezza.
Le dolci spigolosità lasciano trasparire una forma di distacco e di delusione nei confronti del senso costruito a priori.
Le lettere diventano qualcos’altro, non sono più in primo piano ma diventano lo sfondo nella rete che diventa il vero oggetto della visione.
L’occhio si ferma sulle righe così sapientemente delineate, casualmente regolari quasi a indicare una matrice di nuovi significati non ancora svelati.
È come se ci fossero diverse fasi nelle opere di Stefano, dalla distruzione alla ricostruzione, dal caos ad un nuovo equilibrio passando per i vecchi costrutti, immortalando alcune icone che nell’immaginario collettivo rappresentano la vecchia cultura, il senso finito delle cose.
Alla fine ciò che acquista senso è la non cornice che diventa la nuova cornice di un nuovo mondo da leggere, da scoprire.
In principio era il caos…(mostra "World Wide Works" Verona 2011)
"Penso che un quadro assomigli di più al mondo reale se fatto col mondo reale"
(R. Rauschenberg)
di Lucia Majer
Lucia Majer è critico d’arte, curatore, direttore di
Majergalery.com
L’espressione artistica è come un viaggio all’interno di sé. L’artista è in questo senso artefice di una sinergia fra mondo esterno e mondo interno, è colui che rende visibile ciò che per sua natura non lo è.
In virtù delle proprie capacità e della propria sensibilità l’artista è colui che risveglia le coscienze sopite e le accompagna a vedere la realtà al di là e attraverso la sembianza materiale o superficiale.
Alla fine quello che conta non è più tanto la tecnica, quanto il messaggio che sta dietro e dentro l’opera e che ne giustifica la forma stessa.
In questi giorni, cercando dentro di me di inquadrare, ordinare, dare un senso alle tante opere dell’amico artista Stefano Boato, mi tornava spesso in mente il mito della creazione (“All’inizio era il Caos…”) e ho trovato piuttosto bizzarra ma tutto sommato plausibile questa associazione, che però spiega la natura filosofica del suo lavoro e il bisogno, così umano, di ordinare, di ri-creare, di far vivere oggetti e cose abbandonate nella nuova dimensione dell’arte.
Se entriamo nello studio di Boato troviamo un po’ di tutto, dai più svariati tipi di supporto agli oggetti più comuni, bottigliette, contenitori, palline, carta, scatole, componenti elettroniche…, oggetti che perduta la loro funzione sembrano nature morte, cose senza più senso gettate per terra, pronte per l’oblio. Ma in quella ordinata confusione tutto sembra acquistare un significato, in attesa di essere “recuperato”, scelto e battezzato per una nuova esistenza… E così, in generale, più che trovare per Boato un’etichetta specifica di appartenenza (Pop Art? Arte Povera?) preferisco parlare del suo lavoro in funzione di una ricerca che è più filosofica che tecnica e che è decisamente orientata a mettere il pensiero davanti alla forma, il “cosa” davanti al “come”.
Di fronte alle accumulazioni e agli assemblaggi che recuperano palline da golf o componenti elettroniche per un istante ho pensato a quanto forte può diventare in noi il desiderio di allontanare la paura della morte donando vita nuova alle cose che vanno perdute, rendendoci così partecipi di un atto creativo. E’ lì che scopriamo la capacità di inventare e di aprire gli occhi su realtà che magari altri non vedono, inventando nuovi percorsi, ma scopriamo anche il bisogno che ha l’anima di rassicurarci che ciò che nasce non muore.
Negli anni Sessanta del secolo scorso era già molto sentito questo bisogno da parte degli artisti, sia perché cercavano di sondare nuove possibilità espressive, sia perché tentavano di dare una forma visibile al senso di precarietà che aveva inesorabilmente pervaso il mondo. Robert Rauschenberg ad esempio è stato un grande osservatore della città, degli oggetti, delle scritte, captando poi tutti questi elementi nella sua opera, così come i diversi materiali corrosi, ridipinti, o le pagine di fumetti, giornali, lettere di manifesti.
Egli ha il merito di aver portato sul piano dell’espressione artistica frammenti e oggetti della realtà estranei all’arte, scoprendone il potenziale evocativo. Un’operazione che ha segnato l’evoluzione dell’arte determinando
un sempre maggiore avvicinamento tra l’arte e la società dei consumi, come abbiamo visto con la Pop Art, il Nouveau Realisme, l’Arte Povera e come ancora oggi è presente nella ricerca di molti artisti.
Stefano Boato è tra questi e il suo lavoro nasce a stretto contatto con la realtà.
A raccontarcelo sono le decine di opere che affollano le pareti del suo studio, il cui nucleo più consistente è dedicato ai collages che l’artista ha creato a partire dagli anni Novanta. Ciascun lavoro documenta un’azione che va ben oltre la semplice tela. Boato anzi ha reinventato la tela, perché sui collages e sulle immagini si sovrappongono, a fitte trame, righe di colore distribuite quasi a voler cancellare l’immagine, in realtà pensate per unire, preservare, proteggere l’immagine stessa.
La ricerca di Boato è sempre in bilico tra astrazione e figurazione, non sembra voler rinunciare a nulla se funzionale al suo messaggio. La principale differenza tra la sua opera e la Pop art è nel fatto che Boato non decontestualizza gli oggetti, non ne dà necessariamente un nuovo significato; egli è infatti ancora molto legato al linguaggio gestuale, ossia utilizza gli oggetti, le cose, non con un preciso significato, ma per il loro valore estetico di insieme. Gli oggetti, le lampade, le scatole e quant’altro assemblati insieme sono cioè uno strumento espressivo così come i tradizionali colori, tant’è che non si distinguono da lontano rispetto alle colate di colore, ma ne fanno parte integrante.
Un’evoluzione è costituita dal tema della Soglia e della Città Ideale, dove l'identità di ogni oggetto rimane più chiara; le famose “Porte” ad esempio sono unione di pittura e scultura, continuano nell'ambiente, vengono solo rielaborate come strumento espressivo, come realtà che continua nell’opera e viceversa.
Boato affronta spesso il tema della tecnologia e della globalizzazione informatica utilizzando componenti elettroniche e pezzi di computer nei suoi lavori. Si tratta di assemblaggi fortemente evocativi, di deciso impatto visivo, che trovano ideale collocazione in un ambiente vuoto, asettico, in cui l’opera, così isolata, può raggiungere la massima efficacia espressiva. La tecnologia è presente in molte opere dell’artista, a volte anche solo a livello superficiale, come dimostra la serie degli Arazzi, grandi pannelli scenografici interamente occupati dal colore, il cui effetto psichedelico ci fa pensare alle vibrazioni di televisori impazziti. Ma anche il tema figurale prende spesso spunto dal linguaggio informatico come la “@”, oppure la sigla www. Il titolo della mostra “World Wide Works”, richiama i lavori dell’artista in riferimento proprio all’esistenza di internet, ma è anche un gioco di parole che ribadisce il bisogno di comunicare e di sentirsi unito al resto del mondo, attraverso una rete che non è solo virtuale, ma diventa reale nella trama di colore che abbraccia le opere. Agendo in questo modo l’artista riesce a “parlare” un linguaggio comune, la sua opera sa essere internazionale, perché utilizza codici universali esprimendo un bisogno che è condiviso da tutti.
“In principio era il Caos. E poi la Terra dal grande seno, sede incrollabile di tutti gli immortali che abitano la sommità del nevoso Olimpo, e il Tartaro tenebroso nelle profondità della grande Terra, e poi Amore, il più bello degli immortali, che irrora del suo languore sia gli dei che gli uomini, ammansisce i cuori e trionfa dei più prudenti propositi”.
(Esiodo, Teogonia)
Ogni arte è una metafora della visione, sia come attitudine fisiologica della vista, sia come emblema del nostro potere trasformare il Caos in Kosmos, di rigenerare, ridare vita a qualcosa, trasformando la confusione indistinta in un nuovo ordine armonico.
Stefano Boato, nell’arca della sua vita racchiude I frammenti del tempo moderno ed ogni opera è come una metafora del nuovo Giardino da salvare.
Egli raccoglie e conserva le tracce della nostra esistenza, vi guarda attraverso per coglierne una nascosta Bellezza e vincere così la paura dell’ignoto e della morte.
Sottraendo gli oggetti comuni all’oblio e facendoli in qualche modo rinascere nella dimensione dell’arte, egli simbolicamente si ricollega alla ciclicità tipica della natura, in cui lo scorrere dei giorni, delle stagioni e, più in generale, della vita, dà all'uomo il senso di appartenenza ad una catena infinita di eternità.
Ridipingere la pittura (mostra "World Wide Works" Verona 2011)
di Gaetano Salerno
Gaetano Salerno è docente e critico d’arte, curatore e direttore di
Segnoperenne.it
Oltrepassando un confine labile che lo schermo pittorico può solo enfatizzare, Stefano Boato apparentemente stempera sulla superficie della tela l’incertezza dell’esistenza attraverso un agire che cita il soggetto negandolo con apparenze e trasparenze, inquadrandone e svelandone la natura teorica dietro una barriera protettiva al tempo riflessiva e riflettiva.
Ridipingere la pittura equivale invece a esplorare ogni livello del non essere; citare le assenze e i vuoti di una realtà appiattita e uniformata dalle forme e da una ponderata casualità di linee intersecanti le linee del mondo della figurazione - l’ordine cosmico perduto – traduce il bisogno di una generazione artistica di definire il proprio spazio, dopo l’implosione del senso e l’epoca delle disarmonie.
Con colori filamentosi e vibratili tracciati lungo le direttive compositive del quadro individua gli interstizi nei quali ricollocare il senso del nostro pensare l’opera, orientando i punti di fuga degli sguardi su presenze riconoscibili, spinte verso nuovi epiloghi comunicazionali perché liberate definitivamente da ogni appiglio realistico o immaginifico.
L’essenza evanescente della materia trascende l’immobilismo geometrico o la genericità di espressioni minimaliste: segmenti e porzioni severe di rette trasportano emotivamente l’archetipico rigoroso ad un lirismo armonico e fortemente empatico, scandagliando la sfera dell’intuibile, oltre l’estetica limitante dell’ortogonalità, per aprire ogni visione all’inafferrabile.
Alla disillusione dell’ottica postmoderna in cui tutto riaffiora inesorabile da culture espressive lontane ma invasive sono contrapposte, con la rapidità e l’innocenza del “colorire”, non una ma infinite linee difensive, assertive risposte al nichilismo monocromatico del patire contemporaneo, oltre l’empasse di una letteratura figurativa ermetica e ingannevole: riempire, colmare, eccedere, strabordare per affermare strenuamente chi siamo, cosa vogliamo.
Prefazione (mostra "World Wide Works" Verona 2011)
di Carlotta Vazzoler
Carlotta Vazzoler è direttore artistico e responsabile di M&ID Venezia
La prima esposizione che in maniera ufficiale rende visibili a un più ampio pubblico le opere dell’artista Stefano Boato è la mostra/evento La leggerezza della ragione tenutasi a Mirano (VE) alla Barchessa di Villa Giustinian Morosini nel giugno 2010. L’esposizione Intersezioni tuttavia organizzata in concomitanza con la 54ma edizione della Biennale d’Arte a Venezia al Cà Pisani Hotel nel giugno 2011, dà modo all’artista di avere una visibilità internazionale. World Wide Works, ottobre 2011, a Castelvecchio, Verona darà spazio ad un rinnovato modo di presentare l’arte contemporanea unendo il passato - il luogo dell’esposizione - ad un oggi che cambia e si modifica velocemente - i luoghi virtuali. Unire due mondi e due modi di vedere e di esistere, perché il passato è sostegno e fondamenta dell’oggi: l'oggi stimola con rinnovata linfa il passato. La volontà che l’arte contemporanea possa e debba avere un respiro più ampio porta questa nuova esperienza a Verona tra i corridoi del Circolo degli Ufficiali dell’Esercito Italiano che ha una delle sue sedi più prestigiose proprio a Castelvecchio. Una cornice storica e autorevole che accoglierà le opere di Boato dal 6 al 29 ottobre 2011 e che si propone, all’interno di un luogo inconsueto e inusuale di stimolare nuovi cammini rinnovando le emozioni.
Stefano Boato spinge la sua ricerca artistica in diversi ambiti; diversa e variegata è la sua
produzione che tende a cogliere i diversi aspetti del mondo reale, di quello fantastico e immaginifico. Una forte e irrinunciabile necessità è per l’artista lo spaziare da un genere all’altro, più che portare semplicemente a compimento una lezione.
Le “CONTAMINAZIONI POP” sono lavori di una serie dove le immagini, che derivano sempre dal mondo reale - bottiglie, volti, lettere, figure, numeri - vengono prese, ingrandite, rielaborate fino a diventare semplici forme. Mai disegni, solo forme, che diventano occasione compositiva per giochi di colore, elementi infiniti da inserire come pretesto all’interno del quadro.
Queste immagini/forme evidentemente non bastano a se stesse e così una rete di linee le separa e allo stesso tempo le fissa distanziandole dallo spettatore attraverso un effetto ottico.
“…. Realizzo dei reticoli che nascondono immagini e icone prese dal mondo reale, immagini che catturano e che vengono a loro volta catturate e imprigionate dietro ad una rete di colore colato; sono ferme, distanti, lontane anche dai loro significati più reconditi, ridotte a forme senza tempo, ombre di colore in un altro spazio …”
I “SIPARI” hanno invece fondi astratti, spesso aniconici e sono lavori, dove le linee di colore colato sono solo verticali - o più raramente orizzontali - create per generare una sorta di elemento separatore, un sipario, tra lo spettatore e il fondo astratto, fondo che si percepisce attraverso una trasparenza che ne accentua la virtuale lontananza.
Analogamente i “RETICOLI” sono anch’essi delle “tessiture” dove le linee di colore colato, s’incrociano. Si viene a creare l’illusione di profondità e di separazione dallo spettatore; le linee attraggono lo sguardo dando la sensazione che il quadro sia solo un pezzo di qualcosa di più ampio.
Boato studia in questo modo la rappresentazione dello spazio mettendo in primo piano le tessiture che formano geometrie di linee multicolori e che suggeriscono, in direzione spazialista, originali e inedite modalità percettive; sono tessiture che creano effetti di profondità, tridimensionalità irreali e frutto di sola immaginazione.
Le sue “tessiture” vibrano e testimoniano una ricerca in direzione cinetica, con un lavoro teso ad approfondire e rielaborare i meccanismi della percezione e dell’illusione ottica.
“…. È una ricerca d’equilibrio; c’è un punto oltre il quale il quadro perde il suo significato e prima del quale il suo significato non è ancora compiuto...”
Nei lavori della serie “ARAZZI” non ci sono tessiture, le linee di colore lasciano spazio a una superficie, dove tutti i colori trovano tra loro l’armonia come in un grande arazzo e la superficie torna a essere superficie e il colore è solo colore.
Anche la tecnica che l’artista utilizza lo aiuta nel realizzare le opere: egli usa, infatti, prevalentemente smalti al nitro, colori che asciugano in pochi minuti per impedire le sbavature e non richiedere riflessioni; una tecnica veloce che non permette quindi ripensamenti. All’artista viene così garantito il trasferimento delle sue emozioni attraverso il colore direttamente sulla tela, sul supporto o sull’oggetto precedentemente creato, anche attraverso un complesso e lungo processo compositivo come avviene nei “Combine”.
I “COMBINE” sono dei lavori dove il recupero di materiali e cose dismesse sono il pretesto per creare l’opera. Boato porta quindi sul piano dell’espressione artistica elementi che assembla e combina, scoprendone così il potenziale evocativo e rivelando, attraverso il colore pulsante, la poesia che si cela anche dentro le cose più comuni.
Come tessere di un mosaico si compongono quindi di pezzi recuperati da vecchi computer, schede madri, ventole, transistor, messi insieme per formare plastici di città infinite; pezzi di lattine, scatole di sigari, ruote di pattini, palline da golf, vecchi CD riflettenti, tutto rigorosamente usato, rivivono ancora sotto diverse forme dentro ad un mare di colori.
“... raccolgo, recupero ….. e poi riciclo... tutto può avere una seconda possibilità ….in questa macchina che tutto macina e poi divora, qualcosa si salva e poi … vive ancora ...”
I “COLLAGE” sono costruiti con manifesti strappati dai muri, fatti a pezzi e poi ricomposti come tessere di un mosaico infinito fatto di scarti ancora in grado di raccontare storie diverse o generare nuove forme. Con l’obiettivo, forse, di far rivivere sulla tela parte di quella Venezia strappata e ridare respiro, dall’altra, alle pietre stesse della città.
“…. Realizzo dei collage strappando i manifesti pubblicitari affissi sui muri; li prendo, li strappo e poi li ricompongo; ciascun pezzo racconta una storia, è un pezzo di città perduta che rivive con una nuova dignità per raccontare, assieme agli altri pezzi, una nuova storia fatta di memoria e di sogno; il colore colato fissa i vari pezzi, amalgama i tasselli e crea un sipario che ne preserva l’integrità ….”
"BOX 3D” sono delle tessiture eseguite su scatole in legno di recupero (confezioni di vino, dolci,…) che vengono usate come pretesto compositivo tridimensionale; a volte vengono chiuse, sigillate, e all’interno trova custodia una “cosa inutile dell’artista” e diventano magicamente delle “Time Capsule”.
A.R.T.E (mostra "La leggerezza della ragione" Mirano 2010)
di Lucia Majer
Lucia Majer è critico d’arte, curatore, direttore di Majergalery.com
Avanguardia
La ricerca artistica degli ultimi decenni si è frantumata
in un’infinità di linguaggi che cercano in modi differenti
di esprimere il bisogno di comunicare e l’esigenza
di trovare simbologie nuove in risposta ai problemi
esistenziali dell’uomo moderno. Un pluralismo che
tende a sconfinare nell’arbitrio e che comprende, oltre al
recupero di strumenti e di linguaggi tradizionali, anche
la volontà di trasmettere messaggi sociali facendosi
carico di fratture e disagi esistenziali. Predicando
cioè l’epoca nella quale viviamo. Una delle diatribe
che spesso accendono i critici riguarda la leggibilità
dell’opera d’arte, la sua possibilità di fruizione da parte
del pubblico e soprattutto i criteri o i canoni attraverso
i quali condurre l’analisi dell’opera stessa, al fine di
“comprenderla” e inserirla nel suo adeguato contesto.
Come appendice alla teoria della relatività di Einstein
si può dire che anche in ambito artistico, nel momento
in cui si afferma la relatività, cadono tutti quelli che
sono i parametri oggettivi di giudizio su un’opera. Per
alcuni l’indecifrabilità di un’opera d’arte è elemento di
imperfezione dell’opera stessa, di conseguenza un’opera
non immediatamente leggibile è di per sé un’opera non
riuscita dal punto di vista artistico. In realtà spesso il
limite non è dell’opera d’arte, ma spesso del fruitore.
Il concetto di “avanguardia” è legato indissolubilmente
al concetto di estetica, che non ha parametri oggettivi
di riferimento ma risulta di volta in volta collegato alle
epoche che la esprimono e come tale è in continua
evoluzione. Del resto l’effetto sorpresa o “choc” gioca
un ruolo fondamentale nella vicenda dell’avanguardia
artistica del Novecento: da Man Ray, per il quale è “bello”
l’incontro fortuito di un ombrello e di una macchina da
cucire su un tavolo di dissezione, a Hermann Nitsch
che disseziona le mucche per rivestirsi del loro sangue
caldo grondante, innumerevoli sono gli artisti che hanno
elaborato un progetto d’arte in opposizione all’idea
neoclassica di bellezza come armonia. Nella maggior
parte dei casi la diffidenza che ancora oggi molti
esprimono nei confronti dell’arte contemporanea deriva
dalla mancanza di parametri adeguati con cui leggere
l’opera, rimanendo rigidamente ancorati a canoni
estetici superati. Si guarda cioè all’arte contemporanea
con un occhio perennemente proiettato al passato, alla
ricerca di paragoni inadeguati e spesso fuorvianti.
Ragione
La leggerezza della ragione nasce dall’incontro fra
tre professionalità, tre ingegneri, che si confrontano
sul tema del fare arte tanto come espressione della
propria individualità, quanto come progetto di ricerca
più generale. Nasce così questa mostra, che è stata
voluta e progettata come un evento per sottolineare il
bisogno che esprime l’arte di comunicare ed espandersi
all’esterno, coinvolgendo il pubblico e non solo gli addetti
ai lavori, in una riflessione su tutto ciò che ci circonda,
dallo spazio della realtà allo spazio interiore degli artisti
fino allo spazio ideale che ognuno rinviene in se stesso in
relazione alle opere esposte. Un progetto di ricerca quindi
sulla percezione e sul potere comunicativo dell’arte,
condotto con la logica costruttiva della ragione, ma con
la necessaria leggerezza per avvicinare e avvicinarsi
all’arte senza pregiudizi, cercando di abbattere ostilità e
barriere, invitando a leggere l’opera d’arte come qualcosa
di aperto e mobile, un viaggio in continuo divenire che
muta continuamente e che dall’impermanenza della
società contemporanea, dalle sue frenesie e dalle sue
contraddizioni trova la linfa vitale. Ecco quindi il tema
della “soglia” che gli artisti affrontano attraverso il loro
lavoro. Le porte che accolgono l’ingresso alla mostra
sono il simbolo dell’ingresso nel mondo dell’arte, ma
in un certo senso anche un punto di arrivo, varcato il
quale tutto cambia, nulla è più come prima. Gli artisti
offrono attraverso le loro opere un punto di vista, un
modo di interpretare la realtà che è un sinolo di ragione
e sentimento, c’è il desiderio soprattutto di affrontare la
realtà quotidiana con ironia, limandone i lati più aspri
col potere tagliente dell’ironia, con i giochi di parole,
con la leggerezza del gioco e delle combinazioni di
forme e di colori. E, come accadeva nell’antichità, se
pensiamo all’origine etimologica della parola ironia,
attraverso l’arte si cerca di mettere in dubbio le certezze
precostituite. “Eironeia” deriva dal greco “eiron”, che
significa “colui che interroga fingendo di non sapere”.
Quello che faceva Socrate quando interrogava il suo
interlocutore per condurlo alla ricerca della verità,
dopo essersi spogliato delle proprie false certezze. Gli
artisti non hanno la pretesa di imporre delle verità, ma
di offrire spunti per interpretare la realtà con occhio
aperto e libero, con la leggerezza di chi ha trovato un
equilibrio tra l’imperfettibilità del reale e la perfettibilità
dell’arte.
Tecnologia
Qual è l’incidenza del procedimento tecnico esecutivo
sull’opera d’arte? Quanto decisivo l’impiego di certi
materiali, strumenti o metodiche anziché altri? L’opera
d’arte ha una sua qualità, un suo proprio, peculiare,
modo di essere e di porsi del tutto distinto, autonomo,
separato dalla tecnica. Una separatezza questa da
intendersi in chiave rigorosamente strumentale: la
tecnica è fattore necessario, ma non sufficiente alla
produzione artistica. E se in origine, nell’antica Grecia,
si registra una coincidenza, un rapporto d’identità fra
l’arte come manualità e la tecnica, successivamente
quest’ultima viene a lungo svilita e respinta al rango
di fattore del tutto subordinato ed inessenziale del
processo artistico: res manualis, res vilis, per adoperare
una celebre locuzione della scolastica medievale, con
la sua carica di disdegno per qualsivoglia operazione
manuale o servile. Ma il passo decisivo viene compiuto
nel Rinascimento, quando l’arte perviene allo status di
attività liberale: uno status elevato, dunque, connotato
da un’attività fervidamente mentale, di pensiero,
piuttosto che materiale, aliena da compromissioni con
il lavoro meccanico. Dall’ampliamento del repertorio
delle tecniche artistiche dell’era moderna prende il
via un ciclo di sperimentazioni sugli strumenti e sui
linguaggi dell’arte che prosegue, senza soluzione di
continuità, fino ad oggi. L’invenzione della fotografia,
l’impiego artistico di questa prima macchina capace di
produrre immagini ha disseminato di nuovi interrogativi
ed ipotesi di lavoro la riflessione di critici ed artisti:
di cosa si tratta, di un pericolo mortale per l’arte o
piuttosto di una estensione della creatività umana?
Oggi l’opus dell’artista, finalmente liberato da ogni
vincolo, cessa di essere circoscritto ad un oggetto: ad
esso si può riguardare nei termini di un processo di
azione-reazione, immerso (come ogni fatto umano e
sociale) nelle coordinate dello spazio e del tempo. Alla
ripulsa della tecnica tradizionale fa riscontro l’utilizzo
sperimentale di ogni sorta di cose, linguaggi, mezzi
(compresa la fluidità dell’energia elettrica) lungo il
fil rouge di un moto esplorativo che supera le stesse
categorie di progresso e modernità, adducendo alla
nozione intervallata ed ineguale del post-moderno.
Nello sforzo inteso alla definizione di una teoria, l’arte
mette in gioco se stessa nel riproporre, aggiornandolo
all’era dell’elettronica e dell’informatica, l’interrogativo
di sempre: in quale direzione procede l’arte, verso quale
storia, con quali modelli ed infine con quali prospettive?
Emozione
Cercare di definire l’essenza dell’arte costituisce alla
luce delle più interessanti e recenti teorie estetiche un
errore logico. Alla domanda generale “cos’è l’arte?” non
corrisponde oggi nessuna risposta esaustiva e plausibile.
E’ però interessante osservare che uno degli elementi su
cui si focalizza maggiormente l’analisi è la potenzialità
dell’opera di suscitare un’esperienza immaginativa
nell’osservatore. Questa teoria, efficacemente illustrata
da R. Collingwood nel suo testo “The Principles of Art”,
presuppone un ruolo attivo da parte dell’osservatore e
analizza l’opera d’arte in relazione al fattore empatico
che si crea tra opera e pubblico. Secondo la sua
teoria l’osservatore riesprime in modo immaginativo
l’emozione che è presente all’interno di un’opera.
Pensare all’arte in termini di espressione porta a
considerare tutta l’arte come linguaggio, sulle cui
frequenze è necessario porsi affinché il messaggio di
cui è portatore sia accolto. Attraverso le installazioni e
le opere presentate, La leggerezza della ragione si pone
come progetto di ricerca per esperire i meccanismi
di percezione dell’osservatore, verificando anche i
differenti gradi di emotività suscitati e le differenti
risposte che arrivano dalle sollecitazioni degli artisti.
In genere possiamo affermare che apprezzare l’arte
richiede immaginazione. Questa attività immaginativa
non è esclusivamente visiva, ma è costituita dalle
sensazioni immaginarie prodotte dalle esperienze -
che ciascuno possiede – di distanza, spazio, massa e
via dicendo, suscitate da un’opera. “Il valore di una data
opera d’arte per una persona adeguatamente qualificata
per apprezzarlo non è la piacevolezza dell’esperienza
immaginativa che quegli elementi sensibili risvegliano
in lui. Le opere d’arte sono solo mezzi in vista di uno
scopo. Il fine è questa esperienza immaginativa totale
che ci permettono di provare”.*
Stefano Boato, è un grande osservatore della realtà contemporanea, delle forme, degli oggetti, delle scritte. Rielaborando lo stile immediato della pop art e proponendo originali modalità percettive che lambiscono i confini dello spazialismo, Boato porta sul piano dell’espressione artistica elementi che assembla e combina, scoprendone il potenziale evocativo e rivelando, attraverso il colore pulsante, la poesia che si cela anche dentro le cose più comuni.
Enrico Bonetto, si esprime attraverso uno stile eclettico che rielabora le istanze di modernità delle avanguardie dimostrando un’istintiva propensione verso la materia: le accumulazioni di oggetti di uso quotidiano, come anche gli assemblaggi realizzati attraverso vecchi oggetti recuperati trasmettono un messaggio ironico e diventano luogo di prove percettive. I rituali e l’iconografia della civiltà dei consumi passano attraverso l’interpretazione dell’artista, che ne effettua la scomposizione con esiti di ironica e spiazzante paradossalità.
Luca de Lorenzo Poz, fotografo, presenta una galleria di visioni che si avvalgono di tutta la potenza espressiva del bianco e nero. La sua opera creativa si concentra sul paesaggio, ma più in generale è la realtà quotidiana a costituire il nucleo dei suoi “racconti”: frammenti rubati al tempo, scatti estemporanei che la luce fissa in attimi di sospensione, catturando sguardi e forme ma nello stesso tempo mantendendo inalterato anche tutto il senso della vita che in essi si nasconde.
Note:
*Collingwood, R.G., 1958, p. 148.
Bibliografia:
Carrol, N. (a cura di), Theories of Art Today, University of Wisconsin Press, 2000.
Collingwood, R.G., The Principles of Art, Oxford University Press, 1958.
Majer, L., Alterarte immagini in digitale, Ellittica, Padova, 1997.
Taiuti, L., Arte e media, avanguardie e comunicazione
di massa, Costa e Nolan, Genova, 1996.
Warburton, N., La questione dell’arte, Einaudi, 2004
STYLE LEGENDS
22 novembre 2014
"CiTiEs" di Stefano Boato. Padova
Una mansarda capace di accogliere i materiali recuperati, base delle sue invenzioni.
Una folgorazione: quella per “Metropolis” di Fritz Lang.
L’amore per l’arte contemporanea, ma senza porle confini e steccati.
Miscelate questi tre elementi e comincerete a capire perché Stefano Boato, ingegnere e artista autodidatta nato (nel 1961) e residente a Dolo, sulla Riviera del Brenta, in provincia di Venezia, si stia imponendo all'attenzione del pubblico e della critica con le sue mostre.
L’ultima, intitolata “CiTiEs”, è allestita sino al 24 gennaio 2015 nelle sale di SPAZIOTINDACI di Via Dante 17/19 nel centro storico di Padova.
E’ curata da Carlotta Vazzoler mentre la direzione artistica porta la firma di Diletta Biondani.
“Sì, se non avessi a disposizione la soffitta di casa, dove deporre i pezzi via
via smontati da altri oggetti in disuso, tutto sarebbe stato più difficile. Anche solo per
una questione di praticità”, confessa Boato mentre ci illustra i suoi lavori: il ciclo
“Cities”, cuore pulsante della rassegna, le “Contaminazioni pop” (“immagini tratte dal
mondo reale ma rielaborate e manipolate sino a diventare semplici forme”) e la serie
degli “Arazzi” dove l’uso del colore è “senza ripensamenti” anche perché gli smalti al nitro usati mai lo permetterebbero.
L’artista recupera, trasforma, dà una nuova vocazione e nuovi usi agli “scarti”
contemporanei, persino a pezzi di parket o scatole di legno una volta usate per
imballare le bottiglie di vino. Non importa: la trasformazione (anche delle immagini o delle iconografie contemporanee come la bottiglietta in vetro della Coca Cola) è solo un punto di partenza. Poi il colore e il tocco espressionista fanno il resto.
Sì ma cosa c’entra “Metropolis” di Lang? Il fatto è che le “città” dell’artista veneziano, protagoniste di precedenti esposizioni a tema, sembrano prive di umanità, scenari postapocalitici o metropoli – appunto – destinate al declino tecnologico o attraversate dalla morte urbana. Lang lo aveva “predetto” nel 1927 e tanta cinematografia di questi ultimi anni ne ha seguito le orme quasi un secolo dopo. Eppure la “base di partenza” di “CiTiEs” è anche tecnologica: pezzi di vecchi personal computer "sezionati” e recuperati, ad esempio. Il risultato? “Assemblaggi” anologhi a quelli di Robert Rauschenberg, maestro dell’espressionismo (come Lang) ma vicino alla pop art (come Boato), dove il “digitale” scompare e ricompare sotto una nuova veste.
I riferimenti o i tributi ai maestri dell'arte non spaventano l'artista veneziano: “Siamo tutti figli di qualcuno, di qualche idea e di ogni innovazione. C’è una continuità nella storia del pensiero e nell’ingegno artistico. Perché privarsene o dimenticarsene?”. Ma forse l’accostamento più interessante lo stesso Boato lo annovera tra i suoi "padri" ispiratori è con le avanguardie Novecentesche, Marcel Duchamp in testa. L'amato Duchamp. Tra altri, certo.
Con la saggia umiltà di un "esploratore" di nuove, possibili, rotte del dipingere e del creare.
Una cosa è certa. A Padova Boato "mette in scena" e in gioco tutto se stesso in una sorta di "antologica" della sua ricerca dentro cui il visitatore compie un viaggio a partire dagli anni Novanta ad oggi.
Immagini e forme che la sezione "Contaminazioni pop", ad esempio, congela sulla tela "attraverso una rete di linee distanziandole dallo spettatore attraverso un effetto ottico" particolare e unico.
Niente di cerebrale o costruito.
L'atelier di Boato è quanto di più semplice e aperto al confronto possa esserci: "Sono contento dice che ogni persona che vede le mie opere aggiunga valore e valori alle mie singole creazioni. Nulla di ideologico". La sensazione finale è di un
ponte tra la ricerca e la manualità dell'autore e le tante, diverse, sensibilità di chi guarda le varie tavole esposte.
Un po' come davanti ad uno schermo cinematografico: colori, forme, linee, immagini, materiali...
L'arte e la vita che si scambiano le parti in un dialogo ideale. "CiTiEs" ti invita a percorrere, anche solo per qualche minuto, strade nuove o diverse. La mostra è stata resa possibile dalla partnership, tra le altre, con l'Associazione nazionale le Donne del Vino (delegazione del Veneto) e Lacs (Nuove tecnologie si fanno strada).
Daniele Vaninetti